Giovedì scorso a Bruxelles alla conferenza “Revitalising the European Dream – a corporate view”, sembrava di essere sulla luna. Tutti a parlare di temi di dettaglio, nessuna visione d’ insieme, mentre fuori il castello di carte europeo e del capitalismo gonfiato dal debito stanno crollando a velocità crescente. I leader e i politici europei come il personale di bordo di un’ aereo, impegnati a fare il redesign di questo mentre cade in picchiata e sta per sfracellarsi. Ad una conferenza a Trento, George Soros ha dato tre mesi di vita all’ euro – buona fortuna a tutti noi (leggi qui l’ intero discorso di Soros).

In Grecia è iniziata la corsa agli sportelli e gli ellenici stanno ritirando i risparmi per nasconderli sotto il materasso prima che vengano convertiti in dracme. Nessuno paga più le tasse, lo Stato ritarda i rimborsi IVA e il saldo dei debiti verso i fornitori di medicinali, il governo di Atene potrebbe trovarsi già a giugno senza cassa. Hollande, Monti e Merkel litigano nel frattempo sulla necessità di introdurre gli eurobond, non curandosi apparentemente del fatto che l’ incertezza sulla rimanenza della Grecia nell’ Eurozona rischia di scatenare fra poche settimane l’ anarchia finanziaria in tutta Europa, con ripercussioni mondiali.

Madrid ha dovuto annunciare il salvataggio da € 19 miliardi di Bankia, quarta banca spagnola, piena zeppa di crediti immobiliari “tossici”. Peccato che la Spagna non abbia tutti questi soldi (al fondo salva-banche sono rimasti miseri 5 miliardi), anche se non manca di creatività finanziaria: hanno proposto alla chetichella di emettere Bonos da far sottoscrivere a Bankia(!), che a sua volta li avrebbe riscontati presso la BCE per ottenere la liquidità necessaria al proprio salvataggio. Forse speravano che i tedeschi non se ne accorgessero; Mario Draghi ha dovuto mandarli al diavolo il giorno dopo. Gli investitori stranieri, per non rimanere con il cerino in mano come con la Grecia, hanno ritirato nei primi tre mesi dell’ anno € 100 miliardi dal sistema bancario spagnolo, mettendo gli istituti finanziari in ginocchio e senza soldi per l’ acquisto dei Bonos governativi in scadenza. La conseguenza si è vista in settimana, con il tasso del decennale vicino alla pericolosa soglia del 7%, oltre la quale la necessità di bailout come per Grecia, Irlanda e Portogallo, diventa certezza. Gli stranieri stanno scappando di corsa dall’ Europa in fiamme, liquidando come possono gli asset in euro e cercando rifugio nei Treasury americani, nei Bund (non manca molto per vedere il decennale tedesco all’ 1%) e in Svizzera (gli elvetici hanno già fatto presente che se continua così, chiuderanno le frontiere ai capitali stranieri per non far esplodere la loro moneta).

Le banche spagnole vanno ricapitalizzate, ma con quali soldi? A più voci si chiede l’ intervento del meccanismo di stabilità europeo (ESM), anche se questo tecnicamente ancora non esiste, primo passo verso l’ unione bancaria europea ed una garanzia comunitaria dei depositi. I tedeschi non ci stanno e comunque il salvataggio richiederebbe tempi  lunghi non compatibili con la fase acuta della crisi, oltre ad essere probabilmente non credibile (ci sono risparmi per € 3.000 miliardi presso le banche della periferia europea). Agli spagnoli non è quindi rimasto che andare a battere cassa dagli americani; sarebbe un’ amara ironia della storia se l’ Europa dovesse venire salvata dagli yankees un’ altra volta, sessant’ anni dopo. Se salta la Spagna salta dopo l’ Italia e anche lo spread nostrano è schizzato in alto in settimana. Berlusconi (si, proprio lui) si è rifatto vivo, raccontando di avere un’ idea “pazza”, ovvero di chiedere alla Banca d’ Italia di tornare a stampare euro (e forse lire…) se la BCE si rifiutasse di farlo. Qualcuno deve avergli raccontato che le banche centrali di Irlanda e Grecia già lo stanno facendo da mesi, per salvare dal fallimento le loro banche. Si chiama ELA (Emergency Liquidity Assistance),  ma non risolve il problema della ricapitalizzazione delle banche altrimenti insolventi.

A dare infine il colpo di grazia ai (pochi) ottimisti rimasti, sono usciti oggi i dati macroeconomici di molti paesi. America, Europa, Brasile, Cina, rallentamento della crescita e aumento della disoccupazione un pò dappertutto. Stampare moneta, come in USA e UK, può servire a fermare il panico che conduce al crollo delle banche (che Draghi prepari il secondo bazooka!), ma non basta per far ripartire le economie cresciute sui debiti. L’ Europa si trova al bivio tra dissoluzione dell’ eurozona e unione politico-fiscale. Nella seconda parte di questo articolo analizziamo come si è arrivati alla crisi della moneta unica e ragioniamo su una possibile  soluzione immediata e in grado di riconciliare le profonde differenze culturali nascoste nelle pieghe della diatriba tra il “virtuoso” centro e la “bizantina” periferia.

La crisi dell’ Eurozona nasce dagli squilibri interni tra paesi membri, sia a livello di competitività che di flussi finanziari. I macronumeri a livello aggregato sono infatti “solidi”, sicuramente meno preoccupanti di quelli di altre nazioni o federazioni economiche.

I Paesi dell’ euro sono sostanzialmente in equilibrio con l’ estero, non dovendo importare molto di più di quello che esportano (al contrario degli americani), nè imitare il caso contrario del Giappone che – con l’ eccezione degli ultimi difficili mesi – finanzia da decadi il deficit pubblico tramite il surplus commerciale. Un rapporto debito pubblico/pil alto ma non ancora fuori controllo e un tasso di indebitamento medio delle famiglie modesto (con poche eccezioni) completano l’ immagine di un’ economia europea aggregata in relativa buona salute. Se non fosse per le asimmetrie competitive interne all’ Eurozona e i conseguenti squilibri del sistema finanziario (banche in primis), potremmo tranquillamente goderci l’ imminente estate al mare, invece di restare svegli la notte con l’ incubo del ritorno di lira, peseta e franco.

Prima dell’ introduzione della moneta unica, i paesi meno virtuosi dal punto di vista macroeconomico, ovvero quelli con prolungati deficit di spesa e di bilancia dei pagamenti, venivano ad un certo punto “puniti” dai mercati con la richiesta di tassi di interesse più elevati e trovavano spesso un nuovo equilibrio stabile solo dopo parziale monetizzazione del debito e conseguente svalutazione della moneta. L’ Italia era maestra in questo e la Francia non le era da meno (per non parlare degli americani, campioni mondiali di tale gioco). L’ euro ha modificato questo meccanismo di aggiustamento dei prezzi (le “svalutazioni competitive”), illudendo sulla convergenza di economie diverse come per esempio quella portoghese e quella tedesca, e sul ritorno alla virtù per mezzo del corsetto dei parametri di Maastricht. Si trattava di un bluff e abbiamo ora capito come è andato veramente a finire l’ esperimento.

Tutti si sono ubriacati: gli italiani hanno potuto finanziare il debito pubblico a tassi più bassi; gli spagnoli hanno costruito case e creato milioni di posti (temporanei…) di lavoro con i soldi a prestito delle banche tedesche; la Grecia ha finanziato stipendi pubblici e pensioni generose raddoppiando il debito pubblico; la Francia non è stata punita dai mercati con l’ aumento dei tassi di interesse, nonstante dieci anni di doppio deficit, pubblico e di bilancia commerciale; la Germania è passata da “malato d’ Europa” a campione di export, creando surplus commerciale (prestato poi dalle banche tedesche alla periferia europea) nei confronti dell’ Eurozona, tramite compressione dei salari reali, aumento della produttività del lavoro e favorevole conversione del marco in euro. La moneta unica, senza il faticoso lavoro di riforme strutturali e di competitività (la convergenza) e senza la solidarietà economica (transfer union), era solo una fata morgana, un’ illusione finanziaria:  governi (Italia, Grecia, Francia), imprese e cittadini (Spagna, Irlanda) consumavano i soldi presi a prestito, mentre la Germania vendeva merci finanziando i propri compratori. L’ euro era – ci sia consentita la metafora – un pò come l’ alcol al bar, che fa sembrare più belle tutte le donne e più ricchi gli uomini. Le sbornie prima o poi finiscono e ci si risveglia con il mal di testa. Lo schock finanziario iniziato con i mutui subprime in America (case per tutti, a debito, anche per i poveracci), è arrivato in Europa quando, per via della recessione, il rapporto debito/PIL è salito fino a cominciare a far dubitare i mercati della solvibilità degli stati, soprattutto di quelli con deficit di bilancio più pronunciati, debito pubblico più alto e senza una banca centrale pronta ad intervenire direttamente. I tassi di interesse sono aumentati, creando una pericolosissima spirale deficit-debito con rischio di default. Sono saltati subito gli anelli più deboli, Irlanda, Portogallo, Grecia, ora sono a rischio Spagna, Italia e Francia (che, a nostro avviso, è in una situazione peggiore di quella italiana).

Quali sono stati i suggerimenti e i rimedi dei dottori della politica europea per curare il mal di testa e il dopo sbornia? I professori tedeschi hanno proposto la medicina amara dell’ austerità, chiedendo il pareggio dei bilanci e le riforme del mercato del lavoro necessarie per aumentare la produttività e ridurne il costo. Il modello imposto dalla Germania è quello iniziato dal governo Schröder, la famosa “agenda 2010” che fece decollare l’ economia tedesca. Come già analizzato in un precedente articolo, riteniamo che la realtà sia un pò diversa da come i tedeschi la vogliono rappresentare: la Germania senza l’ euro non sarebbe riuscita a far tornare rapidamente in positivo la bilancia commerciale nei confronti dei paesi dell’ Eurozona; i tagli ai sussidi di disoccupazione (riforma Hartz IV) e l’ introduzione di contratti di lavoro atipici hanno abbassato il costo del lavoro, ma hanno anche creato 8 milioni di precari e diminuito i salari reali (nel primo trimestre del 2011 ancora inferiori del -5,9% rispetto al 1991!). La cura da cavallo tedesca però non funziona nella periferia europea, perchè eliminare in fretta deficit pubblici elevati crea recessione e di conseguenza il rapporto debito/PIL aumenta invece di diminuire, con ripercussioni negative sulla spesa per interessi. Gli Stati non riescono più a finanziarsi a tassi accettabili e devono quindi “essere tolti dai mercati”, ovvero chiedere i soldi ad organismi sovranazionali (FMI, BCE, EFSF) come accaduto a Irlanda, Portogallo e Grecia.

Anche l’ eliminazione della seconda voce di deficit, quella della bilancia dei pagamenti, a mezzo di deflazione interna (riduzione di prezzi e salari) – non essendo possibile la via meno dolorosa della svalutazione monetaria – non funziona in tempi veloci. I salari hanno storicamente sempre dimostrato rigidità in tempi di recessione e tagli draconiani per via legislativa (Grecia) causano violenze di piazza. Far tornare competitive esternamente le imprese (più export, meno import), senza il trucco della svalutazione, richiede anni di interventi di politica industriale, retraining della forza lavoro e finanziamenti che diano tempo per gli aggiustamenti. Il governo di Berlino ha dovuto investire € 2.000 miliardi e venti anni per riallineare – solo parzialmente – la disastrata economia della Germania dell’ est.

La soluzione keynesiana dell’ aumento della spesa pubblica per stimolare crescita e occupazione è stata finora scartata con la motivazione dell’ impossibilità di incrementare ulteriormente i debiti pubblici, già cresciuti a seguito della recessione globale. Riteniamo opinabile l’ affermazione di chi con sicumera indica una determinata percentuale di debito/PIL come “soglia massima”.  80%, 90%, oppure 100%, ? E il Giappone, allora, con il 200%? Il problema è in realtà di altra natura: i governi obbligati a finanziare una parte importante del debito pubblico (40% per l’ Italia) con capitali esteri si troverebbero costretti a pagare salati tassi di interesse (gli stranieri si fidano poco); inoltre, a meno che la spesa pubblica addizionale non venga indirizzata a investimenti strutturali capaci di creare opportunità di lavoro permanenti, l’ effetto sarà solo temporaneo e quindi non risolutivo degli squilibri esistenti. Ne sanno qualcosa America e Regno Unito, che stentano a far ripartire l’ occupazione nonostante un aumento della spesa pubblica dell’ 11% negli ultimi tre anni.

Un` ulteriore cura proposta da alcuni è quella della monetizzazione del debito, con conseguente svalutazione della moneta e aumento dell’ inflazione. Gli inglesi hanno fatto proprio questo (inflazione 2011: 4,6%; svalutazione sterlina vs USD 2008-2011: -18%), peccato che l’ export non sia decollato. Le ragioni sono molteplici: la guerra delle valute (l’ euro non si è rivalutato, causa crisi, nei confronti della sterlina); la debolezza della domanda internazionale (chi compra?); lo smantellamento dell’ industria inglese negli ultimi dieci anni (finanza, finanza, finanza!). Vale lo stesso ragionamento per la Grecia, anche dopo un’ eventuale reintroduzione della dracma: c’è  un limite fisico al consumo nel mondo di olio di oliva… Se rimane vero che la rigidità dei differenziali di prezzo tra le economie dell’ Eurozona causata dalla moneta unica, moderna versione del gold standard (o del regime di cambi fissi), si può eliminare con il ritorno a divise nazionali svalutate, le economie si riequilibrano positivamente con crescita dell’ export solo se queste producono quantità importanti di beni e servizi con richiesta globale, come materie prime e prodotti industriali non in competizione con l’ export dei paesi emergenti. Altrimenti la svalutazione monetaria porta solo inflazione, povertà e significativa riduzione degli standard di vita. Greci, portoghesi e spagnoli sono avvisati.

Quale è allora il rimedio più efficace alle divergenze tra paesi dell’ Eurozona, alle tensioni che rischiano di spaccare il collante della moneta unica? È utile prima riassumerne le diverse ma concomitanti cause: 1) eccessivo debito pubblico; 2) sistema bancario con troppi titoli tossici; 3) disavanzo primario (deficit di spesa prima del pagamento degli interessi); 4) disavanzo della bilancia commerciale/dei pagamenti. Nel tempo si sono accumulate posizioni di eccessivo indebitamento (cause 1 e 2; visione di “stock”) e permangono fonti di ulteriore alimentazione del debito (cause 3 e 4; visione di “flussi”). L’ altra faccia della medaglia dei disavanzi delle bilance commerciali è il surplus generato ogni anno dalla Germania. Anche nel 2011 i tedeschi hanno venduto all’ Eurozona beni e servizi in eccesso per € 121 miliardi, con un corrispondente flusso finanziario di indebitamento dei paesi compratori.

Cosa bisogna fare per riequilibrare i conti e impedire il collasso del sistema finanziario europeo? Tutti, tranne la Germania, vorrebbero gli Eurobonds. Ha ragione Frau Merkel quando dice che non servono per riparare le fratture fondamentali sopra esposte. Come avevamo già evidenziato, la mutualizzazione dei debiti senza il riallineamento delle divergenze economiche tra paesi, genera solo un temporaneo sollievo (tassi d’ interesse più bassi). Quali investitori si fideranno infatti delle obbligazioni di un’ Eurozona con crescenti debiti pubblici e privati (disavanzi commerciali) di tutti i paesi meno uno, forse due? Chi obbligherà, senza un governo europeo e senza pressione dei mercati finanziari tramite lo spread, i PIIGS e la Francia a fare le pur necessarie riforme? Nasce a nostro avviso proprio dalla questione del moral hazard la profonda dissonanza tra la Germania e i paesi della “periferia meridionale”: il popolo tedesco è ancora europeista convinto (più dell’ Italia), ma non è disposto a mettere in comune la cassa senza garanzie di riduzione del debito e l’ introduzione di riforme da parte dei “latino-bizantini”. Questi ultimi rimproverano a loro volta giustamente alla Germania un atteggiamento da free rider ed egoista, oltre all’ incapacità di comprendere come certi cambiamenti non possano avvenire in tempi brevi. Le differenze culturali e il retaggio storico, apprezzati nella cucina e nel turismo, diventano ostacoli molto difficili nella politica. Ma questo non è il vero sentimento dei popoli, soprattutto nei cittadini più giovani. Siamo convinti che esista un forte sentirsi europei da parte di milioni di persone, che si spostano con piacere tra Roma, Parigi e Berlino e che vorrebbero più Europa, non meno. Solo gli sciocchi non comprendono che in un mondo sempre più globale, a cui si aggiungeranno due miliardi di esseri umani e che dovrà far posto a nuove superpotenze, pensare e agire come italiano, tedesco o francese e non come europeo non avrà più molto senso.

La nostra proposta di soluzione immediata della crisi europea, con importanti benefici anche a lungo termine, prevede maggiore integrazione in Europa ed un Nuovo Piano Marshall per gli investimenti produttivi, da finanziare tramite emissione di moneta della Banca Centrale Europea. Verso l’ unione politica e fiscale, tenendo ben presente – ci pare sia stato dimenticato troppo facilmente – che l’ economia e la finanza devono porsi al servizio dell’ essere umano, non viceversa. Il lavoro, la famiglia e la crescita intellettuale devono essere i fondamenti della Nuova Europa, non la moneta o i tassi di interesse. Questi sono infatti meri strumenti, convenzioni create nel tempo per agevolare la cooperazione economica e l’ evoluzione del lavoro. Il capitalismo non è un fine e il denaro non è ricchezza.

Un organismo europeo, anche la stessa BEI (Banca Europea per gli Investimenti), verrebbe finanziato per € 2.000 miliardi con soldi stampati dalla BCE (è il suo ruolo), che li metterebbe a disposizione con remunerazione fissa del 1% annuo + profit sharing. La BEI svolge un’ attività simile a quella della KfW tedesca e della Kreditanstalt creata per finanziare gli investimenti necessari all’ integrazione della Germania dell’ est.  La BEI, a sua volta, finanzierebbe la ricostruzione economica dell’ Europa, accentrando tutta la spesa per investimenti dei vari paesi e prestando i soldi (al 3% + profit sharing) per i progetti volti a far aumentare la produttività, creare opportunità di lavoro durature e ribilanciare le bilance commerciali in deficit (riforme di competitività). Basti un solo esempio: cosa si aspetta ancora a fare partire un piano europeo  in grado di sostituire completamente le importazioni di petrolio e il nucleare per la produzione di energia? La Germania, che spegnerà l’ ultimo reattore tra dieci anni, ha appena varato un progetto da € 28 miliardi per costruire l’ infrastruttura necessaria a supportare il trasporto dell’ elettricità prodotta da sole e vento.  Un ulteriore compito della BEI dovrebbe essere la ricapitalizzazione di banche insolventi, creando così nel tempo un primo gruppo di istituti finanziari non più sottomessi alle logiche nazionali – attività che andrebbe poi estesa al 100% del sistema bancario, in parallelo con la creazione dell’ unione politico-fiscale. In contemporanea, la BCE dovrebbe annunciare l’ intervento per la fissazione del tetto massimo degli spread sui tassi dei debiti sovrani. Più di un analista si aspetta che ai mercati basti il solo annuncio, con costo zero per la Banca Centrale, considerato che nessun investitore oserebbe sfidare la potenza di fuoco di Draghi e colleghi (così come già avviene per la FED e per la Banca d’ Inghilterra). Il terzo pilastro della nostra proposta prevede la centralizzazioe della raccolta e redistribuzione agli stati dell’ IVA, primo passo verso una fiscalità comunitaria.  I governi nazionali, destinati nel tempo a sparire, si impegnerebbero su un piano di riduzione del debito e dei disavanzi, in cambio di flussi finanziari (investimenti BEI, IVA) e di contenimento della spesa per interessi (limitazione dello spread via BCE). Da sempre, la distribuzione regolata di denaro crea comportamenti rispettosi degli accordi. Una parte di questi mezzi finanziari dovrà essere utilizzata per i “trasferimenti di solidarietà” alle zone più depresse economicamente, così come la stessa Germania finanzia i deficit di 14 Bundesländer con il surplus di Baviera e Baden-Württemberg.

Perchè Berlino dovrebbe accettare tutto ciò e consentire l’ espansione del bilancio della BCE? Riteniamo che l’ accentramento dei flussi finanziari di IVA e investimenti consenta un’ enorme leva sul comportamento virtuoso dei governi nazionali, soprattutto in un’ ottica di agenda di integrazione politco-fiscale. L’ alternativa è comunque la stampa di moneta della Banca Centrale, come a dicembre 2011, per intervenire d’ urgenza e impedire il tracollo finanziario e la disintegrazione dell’ euro, senza però ottenere i vantaggi di crescita, occupazione e riforme. E pensare che per creare 2.000 miliardi bastano una riunione e due click di computer. In 24 ore può cambiare il mondo.