Per la generazione a cui appartiene il sottoscritto, la memoria del conflitto di classe si riduce a quella raccontata con formidabile ironia nei fumetti di Alan Ford, nella indimenticabile scena del personaggio irascibile e in realtà melanconico di Bob Rock, a cui vengono tirate scorze di anguria quando si affaccia sulla spiaggia dei ricchi, separata da un muro dalla spiaggia dei poveri dove lui si trova. Registriamo in questi ultimi anni diversi concreti segnali prodromi di un prossimo ritorno della lotta, anzi delle lotte, tra classi, come solo i nostri padri e nonni hanno sperimentato in prima persona.
Nel post precedente raccontavamo dell’ incombente escalazione del conflitto tra i lavoratori con skills di basso livello (ma anche il cosiddetto middle management), che verranno sempre più sostituiti da robot e software, e le persone con competenze creative e tecniche sofisticate, che vedranno invece aumentare il loro potere economico. L’ ultima copertina dell’ Economist dipinge tale scenario come un tornado che sta per abbattersi su centinaia di milioni di posti di lavoro, citando dei ricercatori di Oxford che prevedono il 47% dei posti di lavoro distrutti per mezzo delle macchine nei prossimi vent’anni, mentre i maghi della finanza di Bank of America si posizionano “long” sui robots e “short” sugli esseri umani, forse anche dopo aver letto di una nuova tecnologia in fase di test in America che consente la produzione velocissima di hamburger per i McDonald’s e di un prototipo per la stampa 3D di vere e proprie case. Non sorprendiamoci quindi se prossimamente i dipendenti di BigMac saranno gentilissimi alla cassa e gli operai che ci costruiscono la casa lasceranno nell’ anticamera mezza finita un mazzo di fiori per le nostre signore.
La lotta di classe storica, quella tra capitale e lavoro, è tornata a farsi sentire in modo prepotente: le 85 persone più ricche del pianeta detengono $ 1,7 trilioni di patrimonio, tanto quanto metà della popolazione mondiale (3,5 miliardi di persone) insieme; nel 2012 i profitti delle imprese americane hanno raggiunto il 12,4% del PIL, la percentuale più alta dal dopoguerra, mentre il valore relativo di salari e stipendi è in calo dal 1970 – trend uguale per tutte le economie avanzate. La causa di questo fenomeno va ricercata nell’ aumentato divario (v. grafico) tra crescita della produttività e crescita di salari e stipendi, sempre a partire dal 1970. A nostro avviso, vi è una concomitanza di fattori che spiegano tale divergenza, a partire dalla dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro nel 1971 ed il conseguente inizio del sistema globale di fiat money (moneta creata dal nulla dalle banche centrali), alla nascita e dominanza del pensiero unico neoliberale, lo sviluppo tecnologico e l’ arrivo sul mercato di un miliardo di nuovi lavoratori “low cost”, fino alla globalizzazione incontrollata della finanza in congiunzione con il modello di crescita gonfiata da bolle creditizie. Tutti aspetti di un unico filo rosso storico, più volte elaborati in questo blog. Non si tratta di sindrome da complotto pluto-giudaico-massonico, bensì di una specifica evoluzione storico-economica che ai miei figli spiego anche con l’ esempio del gioco del Monopoly e la irresistibile tentazione di chi si trova nella posizione di gestire il banco. A parole, si comincia ora a porre la questione dell’ inequalità nelle agende internazionali (FMI, WEF), resterà da vedere cosa intraprenderanno i governi, stretti nella morsa tra lobby e corporazioni interessate al mantenimento dello status quo ed un numero crescente di persone povere, disoccupate o semplicemente impaurite e con aspettative negative per il futuro proprio e dei figli. Sentiremo sempre più parlare di aumenti delle aliquote impositive (prima di Regan, l’ aliquota marginale per le persone fisiche era tra il 70% e l’ 80%), di patrimoniale, compresa quella sulle eredità, di principio di cittadinanza (come già in USA) per tassare i capitali altrimenti altamente mobili e di “lotta” tra banchieri e autorità per la regolamentazione della finanza. Nel frattempo, il primo ministro giapponese Shinzō Abe ha dovuto prendere atto che la svalutazione della moneta non basta per rimettere in moto la complessa (per via delle dislocazioni produttive) macchina industriale del paese ed ha quindi iniziato l’ anno nuovo annunciando una “grande sorpresa” su salari
e stipendi, che dovranno crescere robustamente per ristabilire un “sano rapporto con i profitti d’ impresa” e permettere così la ripresa dei consumi e la fine della deflazione. Parole sorperendenti per un capo di governo non proprio intimo di Fidel Castro, ma tant’è, i politici fanno di necessità virtù (Abe sperava, come qualche ingenuo professore nostrano, che fosse sufficiente fare il solito giochino della svalutazione competitiva – torneremo su questo punto in un prossimo articolo).
Nel capitalismo basato sul debito, si può leggere la lotta appena menzionata anche come battaglia tra creditori e debitori, i primi come detentori di buona parte della loro ricchezza in forma di titoli di debito che privati e settore pubblico sono (teoricamente) obbligati a ripagare per il credito ricevuto, credito che spesso è servito per tenere a galla l’ intero sistema (debito per consumi, subprimes per comprare casa, debiti degli stati per mantenere la pace sociale tramite la redistribuzione welfare e per salvare le banche). Un recentissimo documento preparato per il Fondo Monetario Internazionale conclude che il livello totale dei debiti pubblici accumulati ad oggi è il più alto degli ultimi 200 anni e che i governi saranno giocoforza costretti a fare default e/o tassare la ricchezza ed il risparmio in maniera drastica, per esempio tramite prelievo forzoso sui conti correnti. Sempre il FMI ha calcolato alcuni mesi fa che bisognerebbe tassare i patrimoni in media del 10% per sistemare i conti e consentire al gioco del capitalismo di ripartire ed emblematica è la discussione che sta avvendendo su come gestire in modo non caotico il fallimento degli stati sovrani. Il Pacioli-moment da noi ipotizzato, ovvero il momento dell’ inevitabile riconoscimento che i debiti non potranno venir ripagati integralmente, arriverá probabilmente prima di quanto molti pensino – così scrivono anche Goldman Sachs, rispettati think-tanks e Boston Consulting Group.
In Italia vi è un caso particolare di questa situazione di squilibrio tra creditori e debitori, rappresentato dal 65% del debito pubblico detenuto da concittadini. Troviamo insolito che sempre più parti si mettano a parlare di uscita dall’ euro come unica soluzione a tutti i mali italici, senza considerare invece un’ alternativa più semplice, più efficace e molto meno rischiosa. Il debito pubblico può essere infatti visto come la preferenza dei cittadini, in un dato momento storico, nel rinviare il pagamento di imposte e tasse, proprio quello che è accaduto nel Belpaese (ben spiegato qui). La soluzione per generare sufficienti risorse per far ripartire l’ economia italiana, senza nemmeno dover fare default sul debito, è la seguente: per due anni lo Stato Italiano non pagherà gli interessi ai detentori italiani di BOT e BTP. Sono almeno 100 miliardi di euro, più che sufficienti se ben allocati e distribuiti (in realtà è questo il vero problema…), anche tenendo conto (sono al massimo 30 miliardi) di una probabile necessità di ricapitalizzazione almeno parzialmente pubblica delle banche che detengono circa € 400 miliardi di titoli nei loro bilanci. Se per due anni non si ricevono interessi, non muore nessuno.
L’ ultima lotta di classe che vogliamo accennare è in realtà una lotta generazionale, tra padri (anziani) e figli (giovani). Gli italiani con vitalizi, pensioni d’ oro e tutti quelli che hanno versato meno contributi di ciò che ora percepiscono, ma anche i dipendenti pubblici in pensione che hanno causato un buco da € 12 miliardi all’ INPS nel 2012. Non è molto diverso in Germania, con il debito pensionistico – una volta tenuto conto anche delle obbligazioni future – in rapporto al PIL addirittura più alto di quello nostrano e con l’ attuale grande coalizione guidata dalla Merkel che ha promesso generosi aumenti (compresa la pensione per le mamme) e l’ abbassamento a 63 anni dell’ età pensionabile. La lotta sarà con figli e nipoti e con l’ imponente numero di immigrati che dovranno venir invitati con il tappeto rosso (altro che tendoni a Lampedusa) per evitare che altrimenti crollino i sistemi pensionistici e sanitari europei.
Tante battaglie ci aspettano, forse sarebbe il caso di ripubblicare gli Alan Ford.
Vivere è un’arte che assomiglia più alla lotta che alla danza, perché bisogna sempre tenersi pronti e saldi contro i colpi che ci arrivano imprevisti.
Marco Aurelio, Pensieri, 166/79